Prima dell’avvento di Internet e dei social network, l’estetica e la narrazione di un brand occupavano le prime pagine delle riviste, le copertine dei CD, i blockbuster e i video musicali di MTv.

Negli anni ’90 non c’era né un unico feed né la possibilità di cliccare follow alla pagina del tuo artista preferito.

Le informazioni erano disgregate su vari media e non esisteva un influencer marketing così spinto.

Per lo più, gli artisti di una certa subcultura davano il via a determinati trend in proporzione alla loro esposizione su giornali, tv, cinema o radio.

E siccome anni ’90 fa rima con Hip Hop Culture, per una serie di concause i rapper d’oltreoceano si ritrovarono ad essere le personalità più influenti del jet-set internazionale.

Così questi artisti, che venivano “dalla strada” – per rimarcare la propria immagine da “gente di strada” – indossavano ciò che osservavano in strada: capi da lavoro, tute sportive, sneakers.

Quali sono i brand che hanno definita questa estetica così tipica di quella decade?

Ecco 4 brand che meritano di entrare nell’Olimpo delle icone:

Timberland

Gli iconici stivali da lavoro di Timberland – conosciuti come Style #10061 dai dipendenti del brand o con il soprannome “Timbs” – hanno fatto molta strada dalla loro uscita nel 1973.

Progettati per tenere al sicuro i piedi dei lavoratori edili del New England, la scarpa in nabuk impermeabile alta sei pollici attraversa una storia particolare prima di diventare sinonimo di Hip-Hop style.

Come riporta il giornalista Rob Walker nel suo libro Buying In : “La leggenda narra che i primi acquirenti ”urbani” di stivali Timberland siano stati spacciatori di New York.

Ragazzi che dovevano stare per strada tutta la notte e avevano bisogno delle migliori calzature possibili per mantenere i loro piedi caldi e asciutti”. 

Captato questo trend, tutti i rapper di successo – per affermare la propria credibilità di “gente di strada” – iniziarono ad indossare le Timberland nei propri video.

Da Tupac a Notorious BIG, da Wu-Tang a Mobb Deep: tutti sfoggiavano orgogliosi il loro paio di Timberland.

E fu così che il brand di Boston raggiunse la dimensione di icona che gli si viene riconosciuta oggi.

Ralph Lauren

Storia totalmente antitetica rispetto a Timberland è quella di Ralph Lauren, uno dei primi brand aspirazionali a far ingresso nello streetwear.

Nato figlio di immigrati ebrei a New York, Lauren ha lanciato il suo brand nel 1967 vendendo cravatte da uomo prima di espandersi nell’abbigliamento. 

 Più dei vestiti, però, il nostro Ralph stava vendendo un’idea: i suoi capi erano intrisi del concetto di ricchezza, successo e privilegio.

Indossare capi Ralph Lauren significava essere identificato – e identificarsi – come persona di successo, benestante, americana.

Questo accadeva nel periodo in cui le fasce più povere degli abitanti di New York erano devastate dal crack, dalla povertà e dal degrado – e in cui l’hip hop cominciava a divenire un fenomeno mainstream.

Fu così che, nel 1988, un gruppo di ragazzi neri dei quartieri di Crown Heights e Brownsville di Brooklyn diede vita a un movimento con un obiettivo comune: promuovere l’abbigliamento Polo Ralph Lauren. 

Si chiamavano Lo Life Crew e facevo a gara nell’indossare i capi più preziosi di Ralph Lauren: blazer con stemma, maglioni con l’orsacchiotto, giacche da sci.

In un’intervista a Rack-Lo – uno dei fondatori del movimento – si coglie l’essenza che ha animato questa crew:

“Rappresentava uno stile di vita completamente diverso da quello a cui eravamo abituati a Brownsville e a Crown Heights. 

Ralph Lauren è un marchio di lifestyle: ad esempio, se vai a sciare, c’è la linea per sciare. Se vai in kayak, lui aveva qualcosa per quello. Se stai andando a caccia, lui aveva qualcosa anche per quello. 

Da giovane che veniva dal ghetto, mia madre non mi portava mai in campeggio o in viaggi emozionanti. Era già tanto stare nel cofano della macchina.

Vedere i vestiti ci ha ispirato a sapere che c’era di più nella vita che essere a Brooklyn ed essere bloccati qui, vivendo a questo ritmo limitato. 

Ci ha ispirato a perseguire queste cose: andare in barca a vela, essere sulla Fifth Avenue, far parte dei ricchi e dell’élite e cercare di conquistare il sogno americano nel modo in cui sappiamo come farlo. 

E questa visione della vita si è sviluppata in noi attraverso la moda.”

Tommy Hilfiger

La storia di Tommy Hilfiger beneficia in qualche modo del successo di Ralph Lauren.

Tommy Hilfiger ha avuto il suo approccio al mondo della moda grazie un piccolo negozio chiamato People’s Place, aperto con due amici nella sua città natale nel 1969.

People’s Place vendeva jeans a zampa d’elefante, poster rock n’ roll, dischi e cartine. I tre riuscirono ad aprire altre sedi, ma nel 1979 il progetto fallì.

Tommy non si perdette d’animo e – dopo sette anni – lanciò con il fratello Andy l’omonimo brand, fatto di classici capi da collegiale quali polo e pantaloni chino.

Con queste premesse, risulta particolare scoprire che il successo globale di Tommy Hilfiger sia dovuto ad un rapper.

Era il 1992 e sul canale musicale di maggior successo – MTv – il rapper Grand Puba si apprestava a cantare con Mary J. Blige il loro brano “What’s the 411?”.

Tra le barre del testo, una richiama particolarmente l’attenzione:

” Beh, io sono Puba su questo qui/Il negro dell’anno scorso/Girbauds appeso a un sacco/Tommy Hilfiger top gear ”

La notorietà del brand schizzò alle stelle e fu consacrata qualche anno dopo, grazie ad un altro rapper.

Il 19 marzo 1994, Snoop Dogg eseguì la sua cover del classico “La Di Da Di” di Doug E. Fresh e Slick Rick al Saturday Night Live.

L’elemento principale dell’outfit era una maglia da rugby a righe rosse, bianche e blu con la scritta “TOMMY” sul petto.

Da quel momento il brand decollò, vestendo tutti gli artisti più acclamati e inserendoli in campagne pubblicitarie – invitandoli persino a sfilare in passerella per il sub-brand più sportivo del marchio, Tommy Jeans.

Fubu

FUBU è stato probabilmente uno dei primi grandi brand il cui target erano esplicitamente i giovani neri americani.

Basti pensare allo naming stesso – FUBU – acronimo di “For Us, By Us”.

Avviata da un giovane Daymond John con l’aiuto di tre amici, l’operazione è diventata ben presto un fenomeno di portata globale che ha incassato centinaia di milioni di dollari all’anno per svariati anni. 

All’inizio del secondo millennio, FUBU ha iniziato il suo inesorabile declino – per mille ragazzini bianchi, ce n’erano 10 neri a vestire FUBU – ma ha lasciato un’eredità profondamente intrecciata con la cultura dell’hip-hop degli anni ’90.